Lavoratori sfruttati dentro l’inferno delle fabbriche cinesi Shein
Una giornalista travestita da operaia racconta turni infiniti e sfruttamento estremo
Nei capannoni delle fabbriche che producono per Shein, il colosso dell’abbigliamento a basso costo con sede in Cina, le ore si allungano fino a diciannove, i corpi si piegano sulla macchina da cucire, e la speranza evapora. Una giornalista investigativa, infiltrata tra gli operai, ha descritto una realtà dove diritti, sicurezza e dignità non esistono. Ogni giorno nascono centinaia di capi nuovi, destinati a entrare nel feed di influencer, nel guardaroba di teenager in tutto il mondo, e nei video haul da milioni di visualizzazioni.
Ma a pagare quel prezzo ridicolo, spesso meno di una T-shirt da 2 euro, ci pensano mani stanche, occhi arrossati e schiene spezzate. Gli attivisti da anni denunciano questo modello predatorio, e oggi confermano: “Shein è la punta estrema del fast fashion più tossico”.
Nessuna tutela, nessuna pausa: la catena che consuma le persone

Le testimonianze raccolte parlano di turni ininterrotti, con una sola giornata di riposo ogni trenta. Gli operai si vedono trattenere parte dello stipendio per errori minimi, lavorano senza coperture sanitarie, senza ferie, senza alcun contratto firmato. Gli imprenditori pretendono velocità, produzione continua, totale obbedienza. Non accettano ritardi, non tollerano esitazioni.
Shein, che ha conquistato mercati globali e guadagnato miliardi di dollari, si arricchisce su un modello che non regge senza lo sfruttamento sistematico. Gli abiti si moltiplicano ogni ora, mentre le condizioni lavorative peggiorano. Un’indagine del 2022 ha già collegato l’azienda a più di trecento fabbriche con condizioni gravissime. Il sistema si regge su una parola d’ordine brutale: produrre a ogni costo.
Operai murati nei capannoni e giornate senza fine: la realtà taciuta
Chi lavora nei reparti produttivi di Shein dorme su brande improvvisate accanto alle cucitrici. Alcuni trascorrono settimane senza uscire, dimenticando la luce naturale, mangiando cibo scadente e vivendo in condizioni igieniche precarie. Nessuno ha tempo per parlare, nessuno trova il coraggio per lamentarsi. Tutto gira attorno a una logica feroce: più produci, più vali.
Nel frattempo, influencer celebrano nuovi look ogni giorno, trasformando ogni capo in un oggetto del desiderio. I video haul accumulano milioni di click e creano illusioni, ma non raccontano mai cosa succede dietro le quinte. Ogni bottone, ogni cucitura, porta con sé il peso di una storia ignorata. La moda divora chi la realizza.
Chi acquista ha il potere di invertire la rotta: scegliere è un atto politico
Ogni click su “acquista ora” mantiene in vita questo ingranaggio. I consumatori, anche senza volerlo, alimentano una macchina che funziona solo sulle spalle dei più deboli. Ma un’alternativa esiste. Alcuni marchi investono nella trasparenza, nella sostenibilità, nella giustizia. Non tutto ciò che è economico dev’essere disumano.
Vale la pena chiedersi: vale davvero così poco la vita di chi produce i nostri vestiti? La moda, per essere bella davvero, non può ignorare chi la rende possibile. Scegliere in modo consapevole, sostenere chi lavora in modo etico, smettere di comprare per noia o abitudine: ecco il primo passo. La coscienza non va mai in saldo.
A cura di Veronica Aceti
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