Quando gli insegnanti passano e i sogni restano orfani
Un’aula che si svuota, un cuore che resta in attesa
Nella scuola italiana si respira ogni giorno un paradosso crudele: chi insegna a costruire il futuro, vive nel precariato del presente. Gli insegnanti — quelli veri, con le occhiaie e il quaderno dei voti consumato, quelli che ricordano a memoria i sogni degli alunni — sono diventati comparse temporanee, affacciate su cattedre che cambiano volto ogni anno, ogni quadrimestre, a volte persino ogni mese.
I ragazzi li guardano arrivare, li imparano, li amano. E poi li vedono sparire.
Come succede alle rondini che tornano solo per poco, gli studenti si abituano a non affezionarsi. A non fidarsi. A non aspettarsi più niente.
È la precarietà che educa al distacco, prima ancora che un programma scolastico insegni Kant o la mitosi cellulare.
Il mestiere più bello del mondo (sulla carta)
Fare il docente dovrebbe essere una vocazione. Un sacerdozio laico, in cui la parola diventa pane e la cultura lievito.
Ma oggi chi entra in classe spesso lo fa con un contratto di pochi mesi, o settimane. E non ha nemmeno il tempo di ricordare i nomi, che già deve andarsene.

Sono i cosiddetti “supplenti”, ma il termine è una coltellata lessicale: come se fossero tappabuchi, non persone, ma funzioni.
In realtà, sono spesso i più motivati, i più giovani, quelli che si preparano fino a notte fonda e che affrontano i ragazzi con il cuore in gola. Ma nessuno lo vede.
Lo Stato li chiama solo quando serve. Poi li rimette nel cassetto.
Pagati in ritardo, ignorati dai colleghi stabili, esclusi da ogni percorso di crescita. Vivono un limbo di attese, graduatorie, punteggi, ricorsi.
E intanto devono sorridere a bambini e adolescenti che chiedono solo una cosa: “Resta con noi”.
“Carpe diem” — ma come si coglie il giorno se il contratto scade venerdì?
Nell’’Attimo fuggente, il professor Keating (Robin Williams) invita i suoi alunni a cogliere l’oggi, a vivere con pienezza.
Ma nella scuola italiana del 2025, sono gli studenti a cogliere un attimo solo per vederlo sfumare.
L’insegnante che ha insegnato loro a leggere Dante “con il cuore”, il prof che ha trasformato l’equazione in poesia, la maestra che ha pianto con loro leggendo Primo Levi…
tutti passano, nessuno resta.
E ogni volta che uno di loro se ne va, qualcosa dentro i ragazzi si spegne.
Perché un insegnante non è un contenitore di conoscenze.
È una presenza. È una voce che ti guarda, che ti dice: “Io ti vedo”.
E in un mondo dove i ragazzi si sentono sempre più invisibili, perdere quella voce fa male come una ferita vera.
Una scuola che dimentica chi la tiene in vita
La scuola dovrebbe essere un luogo di stabilità. Di fiducia. Di sguardi che si incontrano ogni giorno.
Ma finché chi insegna continuerà a vivere di incertezze, nessun cambiamento reale sarà possibile.
Servono riforme? Sì.
Ma servono prima ancora scelte di cuore, di visione, di umanità.
Non si può parlare di futuro se non si ha il coraggio di scommettere davvero su chi lo costruisce ogni giorno in classe.
Gli insegnanti precari non vogliono medaglie.
Vogliono restare.
E i ragazzi non chiedono miracoli.
Chiedono solo che le persone a cui si affidano non svaniscano nel nulla, come i sogni quando suona la campanella.
A cura di Veronica Aceti
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