Il giorno in cui Palermo tremò
Sono passati 33 anni dalla morte di Paolo Borsellino, era il 19 luglio 1992 quando una bomba spezzò la sua vita e quella di cinque agenti.
Un pomeriggio d’estate a Palermo, Via D’Amelio brucia. La luce è tagliente, bianca. Il rombo di un’esplosione, e poi il silenzio sordo del sangue. Era una domenica. Le famiglie a tavola, il caldo a soffocare i pensieri, e la mafia a firmare una condanna a morte con il tritolo.
Un uomo contro l’inferno. Paolo Borsellino cercava una via d’uscita senza scappare

Paolo Borsellino lo sapeva. Lo aveva sempre saputo. Che sarebbe toccato a lui, prima o poi. Che la giustizia, quella vera, si paga cara. Che la verità è per pochi: per chi ha le spalle larghe e il cuore sgualcito. Per chi, come lui, ha deciso di non piegarsi mai. Nemmeno quando gli hanno strappato l’amico, il collega, il fratello di sangue e di sogni: Giovanni Falcone.
Perché la morte di Falcone, solo 57 giorni prima, non lo aveva fermato. Lo aveva acceso. Lo aveva reso ancora più pericoloso per Cosa Nostra. Paolo era diventato una mina vagante: troppo ostinato, troppo lucido, troppo solo. In fondo, quella solitudine l’aveva sempre abitata come una casa, ma da quel giorno gli era diventata prigione.
L’Italia che non ha ancora fatto i conti
Quella bomba in Via D’Amelio non ha ucciso solo un magistrato. Ha disintegrato un’idea di Stato. Ha lasciato un vuoto che ancora oggi nessuno è riuscito a colmare. Non perché manchino i giudici o le forze dell’ordine, ma perché mancano, troppo spesso, la coerenza e il coraggio.
I cinque agenti della scorta — Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina — sono nomi che dovrebbero essere insegnati a memoria, come le tabelline. Perché morire per proteggere un uomo giusto rappresenta una delle forme più alte di eroismo.
Le verità che fanno paura
Ma l’Italia ha una memoria corta e una coscienza intermittente. Si commuove un giorno all’anno, poi dimentica. E intanto, i processi vanno avanti come una barca controcorrente, trascinati via dal tempo e dalla burocrazia. La verità su Via D’Amelio resta una matrioska di depistaggi, ombre, silenzi. Una ferita che pulsa e che ci ricorda quanto possiamo diventare codardi, quando scegliamo di non guardare in faccia il mostro.
Paolo Borsellino e il volto umano della giustizia
Paolo Borsellino parlava con il fumo di una sigaretta tra le dita e la voce ruvida. Era un uomo che rideva poco, ma amava tanto. Amava la sua terra, la sua gente, la giustizia. Diceva: “La lotta alla mafia non si deve fermare, mai. Anche se dovessimo morire tutti, non dobbiamo arrenderci.” E lo diceva senza retorica. Lo diceva con la schiena dritta e i piedi piantati nella paura, che però non lo ha mai frenato.
Scegliere da che parte stare
Oggi, 33 anni dopo, il suo nome risuona nelle piazze, sulle targhe, nei cortei. Ma il rischio più grande non riguarda il dimenticare: riguarda il trasformarlo in una statua. Usare la sua immagine senza seguirne l’esempio.
Borsellino non è un’icona da venerare. È un grido da raccogliere. È un dovere da onorare.
Non serve chiamarlo eroe: serve fare in modo che non sia morto invano.
E allora, mentre Palermo si accende di ceri e memoria, il vero tributo è questo: non accontentarsi mai. Non smettere di fare domande. Non voltarsi dall’altra parte. Perché la mafia non è solo quella con la lupara. È anche quella delle strette di mano sporche, delle mezze verità, delle promesse non mantenute.
Paolo Borsellino ha scelto da che parte stare. A noi il compito di restare.