Il tribunale riconosce il danno psicofisico causato dal padre omofobo ai danni del figlio medico
Il Tribunale di Asti difende la dignità del medico perseguitato
Il Tribunale civile di Asti ha emesso una sentenza di grande valore simbolico e giuridico, riconoscendo il danno psicofisico a un medico quarantenne, che ha subìto per oltre vent’anni l’oppressione e il disprezzo costante del padre a causa della sua omosessualità.
Il giudice ha accolto le richieste dell’avvocata dell’uomo, stabilendo che le continue vessazioni subite in ambito familiare hanno compromesso in modo profondo l’equilibrio mentale e affettivo del professionista. Il padre, descritto nei documenti come autoritario e anaffettivo, ha esercitato una pressione costante, fatta di parole umilianti, minacce e isolamento emotivo, fin dalla prima adolescenza del figlio.
“Abbiamo ottenuto giustizia, non vendetta”, ha dichiarato l’avvocata, che ha sostenuto la causa sin dall’inizio con determinazione e rispetto per la sofferenza del suo assistito. Il medico ha raccontato davanti al giudice di aver vissuto per decenni nella paura di mostrarsi, nel timore di sorridere, di esprimersi, di vivere liberamente la propria identità.
Una condotta definita “violenza familiare reiterata”
Le relazioni raccolte durante il processo da psicologi forensi hanno evidenziato un quadro clinico complesso: ansia cronica, depressione profonda, e un disturbo post-traumatico complesso, esito diretto di anni di maltrattamenti affettivi e rifiuto identitario.
Il giudice ha parlato esplicitamente di “violenza familiare reiterata”, un abuso non fisico ma psicologico, radicato nel disprezzo e nell’omofobia. Il comportamento del padre non si è mai arrestato, nemmeno dopo i tentativi del figlio di stabilire una distanza emotiva. Ogni silenzio veniva spezzato da nuove offese, lettere cariche di odio e telefonate intrise di colpa.
Il Tribunale di Asti, con questa decisione, ha indicato con forza che l’amore non può mai giustificare il dolore inflitto in nome di un’autorità paterna cieca e crudele.
Una decisione destinata a lasciare un segno nella giurisprudenza

Questa sentenza non tutela solo il singolo individuo, ma apre la strada a nuove possibilità di riconoscimento per chi ha sofferto discriminazioni silenziose, spesso invisibili, tra le pareti di casa.
In un’Italia dove ancora oggi molti giovani evitano di fare coming out per timore di rifiuto e isolamento, questa pronuncia rappresenta un precedente coraggioso e necessario.
Il medico, che ha scelto l’anonimato, ha detto ai suoi legali di sentirsi, per la prima volta, visto e creduto. Il risarcimento stabilito dal tribunale non cancella il passato, ma riconosce pubblicamente che quella sofferenza ha avuto un costo umano enorme.
“Abbiamo combattuto per la dignità”, ha aggiunto l’avvocata, “e oggi possiamo dire che non abbiamo fallito”.
Un caso emblematico per chi lotta ogni giorno per sé stesso
Una battaglia personale che diventa simbolo collettivo: per chi non ha mai trovato le parole per raccontare il proprio dolore, per chi è stato rifiutato, per chi continua a lottare per essere semplicemente sé stesso.
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