Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: due Uomini, due destini spezzati dalla paura, giustiziati sulla Sedia elettrica per un crimine mai compiuto
Condannati per ciò che erano, non per ciò che avevano fatto
C’era un tempo in cui la giustizia non era giustizia, ma paura travestita da legge. Un tempo in cui il solo fatto di portare un nome straniero, di avere un accento diverso, di credere in un mondo più giusto poteva bastare per condannarti.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano uomini semplici. Emigrati dall’Italia per cercare un futuro migliore, avevano trovato un’America fredda, diffidente, un’America che li guardava con sospetto. Sacco era un calzolaio, lavorava con le mani, con il cuoio e i chiodi, con l’odore acre della colla che si attaccava alle dita. Vanzetti vendeva pesce, lo tirava fuori dalle cassette di legno umide, con il grembiule sporco di squame e l’odore di mare che gli rimaneva addosso. Due uomini del popolo, due lavoratori, due sognatori.
Ma nell’America degli anni Venti non serviva aver fatto qualcosa per essere colpevoli. Bastava essere anarchici. Bastava credere che i padroni non fossero dèi e che gli operai avessero diritto a una vita dignitosa. Bastava essere poveri e venire dall’Italia.
Un processo senza verità
L’accusa contro di loro era grave: rapina e omicidio. Due uomini erano stati uccisi a colpi di pistola durante l’assalto a una fabbrica di scarpe nel Massachusetts. E la polizia, che aveva bisogno di trovare in fretta un colpevole, li prese. Li presero perché erano anarchici. Li presero perché non parlavano bene l’inglese. Li presero perché non avevano amici potenti a difenderli.
Il processo fu una commedia nera. Le prove erano inconsistenti: testimoni che si contraddicevano, un’arma che non si poteva collegare con certezza a Sacco, un’accusa costruita sulla sabbia. Ma il giudice Thayer li voleva colpevoli. Lo disse senza neanche provare a nasconderlo. Li chiamò “bastardi anarchici”. Disse che un simile esempio sarebbe servito per dare una lezione agli altri.
E così la sentenza arrivò, inevitabile, brutale, come un’ascia che si abbatte sul legno: la sedia elettrica.
Le ultime ore di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti
Nella notte del 23 agosto 1927, Nicola e Bartolomeo attesero la morte nel carcere di Charlestown. Si scrissero lettere.
Sacco scrisse a sua moglie, alla sua bambina. Le disse di non piangere, di essere forte, di raccontare a tutti che suo padre era un uomo innocente. Scrisse parole che sembravano scolpite nel ferro:
“Non piangere, figlio mio, sto per morire da uomo coraggioso.”
Vanzetti, che aveva passato tutta la vita a difendere la propria innocenza con la voce di chi sapeva di non essere ascoltato, fu dignitoso fino alla fine. Disse a uno dei presenti:
“Non solo sono innocente, ma non ho mai commesso un crimine in tutta la mia vita.”
Poco dopo, li legarono alla sedia. La corrente passò nei loro corpi. Il boato del generatore riempì la stanza, poi solo silenzio. Due vite spezzate. Ma non i loro nomi.
La memoria e la condanna della storia
Anni dopo, la verità venne a galla. Gli errori, i pregiudizi, le prove manipolate, la sete di vendetta di un sistema corrotto. Nel 1977, il governatore del Massachusetts riconobbe ufficialmente l’ingiustizia. Troppo tardi. Troppo tardi per restituire la vita a due uomini che volevano solo un pezzo di pane e dignità.
E Joan Baez li canta, con una voce che squarcia il tempo.
“Here’s to you, Nicola and Bart, rest forever here in our hearts…”
Una melodia che non si dimentica. Un canto che brucia nel petto, che fa male perché è una ferita ancora aperta. Perché è la voce di chi è stato tradito dalla storia. Fa male perché racconta un’ingiustizia che non possiamo più cancellare. Fa male perché ci ricorda che il mondo non è sempre giusto.
Ma la verità resiste. Anche quando viene messa a tacere.

La pena di morte esiste ancora
Sacco e Vanzetti furono solo due dei tanti. Ma la pena di morte esiste ancora.
Negli Stati Uniti, in alcuni stati, è ancora legge. In Cina, in Iran, in Arabia Saudita, in Corea del Nord, si uccidono uomini e donne in nome di una giustizia che non lascia spazio al dubbio, che non ammette ripensamenti. Anche quando la verità, anni dopo, dimostra che si è ucciso un innocente. Ma il tempo non si può riavvolgere.
Viviamo in un mondo in cui non tutti nascono con le stesse possibilità. C’è chi nasce libero e chi nasce già colpevole, perché povero, perché straniero, perché scomodo. C’è chi ha avvocati influenti e chi non ha neanche una voce per difendersi.
Un mondo da costruire
Eppure, dobbiamo credere che le cose possano cambiare.
Dobbiamo credere che la giustizia non sia un’arma nelle mani dei potenti, ma uno scudo per i deboli. Dobbiamo credere che nessun uomo abbia il diritto di spegnere la vita di un altro. Dobbiamo credere che si possa costruire un mondo in cui nessuno venga giudicato per il colore della pelle, per la propria lingua, per la propria povertà.
Forse è un’utopia.
Ma le utopie sono tutto ciò che abbiamo per continuare a sperare.
A cura di Veronica Aceti
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